Il brigantaggio postunitario in Alta Val di Sangro

Il 29 luglio del 1871, presso l’area pascolativa di Pallottiero, tra i territori comunali di Barrea e Castel di Sangro, il capo brigante Croce di Tola fu ferito e catturato dai carabinieri al comando del brigadiere Chiaffredo Bergia. Cessava così di esistere l’ultima banda di briganti in Alta Val di Sangro.

Ma cosa è stato veramente il fenomeno noto come brigantaggio? Cosa spingeva alcuni uomini (e donne) ad abbandonare i paesi del fondovalle e a stabilirsi in montagna per condurre una vita pericolosa all’insegna dell’illegalità?

Innanzitutto occorre ricordare che con il termine brigantaggio si indica un fenomeno sociale di cui si rendono protagonisti alcuni gruppi di individui che sotto la guida di un capo perpetrano azioni violente a danno di persone o di proprietà.

Per quanto riguarda il brigantaggio nell’Italia meridionale, quest’ultimo è esistito prima del 1861 tanto da assumere, in alcune aree, un carattere quasi endemico dovuto sia alle condizioni di povertà nelle quali viveva la maggior parte della popolazione che alla morfologia del territorio (montagne impervie e boscose). Inoltre, nell’Italia meridionale il numero di bande brigantesche aumentava, analogamente alla pericolosità delle loro azioni, in concomitanza con periodi di grave squilibrio di carattere politico e sociale. Ad esempio, ciò avvenne durante gli anni della occupazione francese del Regno di Napoli (1799-1815) così come negli anni immediatamente successivi all’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia (1860-1870).

fonte Wikipedia, Luigi Alonzi, (http://it.wikipedia.org/)

Figura 1 – Stampa raffigurante il capobrigante Luigi Alonzi, detto Chiavone (immagine tratta da L’Illustration – Journal Universel di Parigi, 1862).

Riguardo al brigantaggio alto sangrino di inizio Ottocento è possibile riportare un episodio macabro accaduto a Pescasseroli: la notte di Pentecoste del 1807 una banda di briganti, guidata da un certo Panetta, dopo aver assaltato il paese di Gioia dei Marsi (l’odierna Gioia Vecchio) ne brutalizzò alcuni degli abitanti mozzando loro orecchi, nasi e dita in modo da procurarsi orribili collane che vennero esibite più tardi alla popolazione pescasserolese.[1]

Effettivamente, lo storico Uberto D’Andrea ricorda come negli anni 1808-1810 tra i monti dell’Alto Sangro furono operative le bande dei capi Panetta, Vent(r)esca e Matera.[2]

Gli episodi di brigantaggio, però, non terminarono con la sconfitta francese nel Regno di Napoli tanto che Gianluca Tarquinio attesta negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento diverse spese militari sostenute dalle comunità alto sangrine per proteggersi dalle incursioni dei briganti.[3]

fonte Wikipedia, Brigantaggio, (http://it.wikipedia.org/)

Figura 2 – Viaggiatori assaliti dai briganti, acquerello su carta di Bartolomeo Pinelli (1817).

L’ultima fase del brigantaggio alto sangrino fu quella che si sviluppò all’indomani dei tumulti popolari scoppiati a causa dell’invasione garibaldina e piemontese del Regno delle Due Sicilie. Difatti, nei mesi di settembre e di ottobre del 1860 in tutti i paesi dell’Alta Valle del Sangro ci furono degli scontri tra liberali (favorevoli all’Unità d’Italia) e reazionari (avversi all’Unità d’Italia).[4] Ad esempio, ad Opi il 9 settembre del 1860 il parroco Leopoldo Cimini guidò l’assalto alla locale sede della Guardia Nazionale durante il quale fu ferito l’ufficiale Carlo Ricci.[5] Poche settimane dopo anche a Pescasseroli ci fu un episodio simile: nella notte del 25 settembre un nutrito gruppo di pescasserolesi, incitato dall’abate Antonio Tudini, fece irruzione nella sede della locale Guardia Nazionale per disarmarne i militi. Una volta preso possesso del presidio, i facinorosi lacerarono il tricolore italiano e lo sostituirono con lo stemma borbonico.[6]

Negli anni successivi divennero noti i nomi dei principali capibanda che, dimenticando presto la causa borbonica, agivano come comuni malviventi. Personaggi quali Domenico Fuoco, il sorano Luigi Alonzi (detto Chiavone), Domenico Valeri (detto Cannone), Croce Luigi di Tola (detto Crucittë) e Nunzio Tamburrini (entrambe di Roccaraso) si spostarono per anni tra i monti dell’Alta Val di Sangro.[7] Le aree maggiormente frequentate dai briganti erano quelle del Monte Meta (Alfedena-Picinisco-Pizzone), della Valle di Rose (Civitella Alfedena), della Valle Sant’Angelo (Villetta Barrea-Barrea), del Coppo di Ferroio (Civitella Alfedena-Opi-Scanno), di Rocca Tre Monti (Civitella Alfedena), di Pietra Amara, di Forca d’Acero e di Valle Fredda (Opi). Tali zone non erano casuali poiché attraversandole era possibile raggiungere in poche ore di cammino la Valle di Canneto o l’Alto Molise. Ma gli itinerari dei briganti non erano certamente sconosciuti né ai bersaglieri del regio esercito italiano né alle guardie nazionali. Tant’è vero che a partire dalla metà degli anni Sessanta dell’Ottocento vennero edificati in diverse località della Valle dei blockhaus (casermette d’alta montagna costruite in legno o in muratura per contrastare il brigantaggio). Ancora oggi è possibile osservare i resti di questi edifici in località Biscurri, presso il Monte Meta (Alfedena), e sulla dorsale settentrionale di Colle dell’Osso, in Alta Val Fondillo (Opi).[8]

Fotografia di Riccardo Hallgass (http://it.i montagnini.it)

Figura 3 – I resti delle mura perimetrali del blockhaus di Biscurri (risalente al 1868).

Fotografia di Davide Boccia

Figura 4 – I resti delle mura perimetrali del Bbarraccónë i jë Bbrëjandë (Alta Val Fondillo).

La costruzione di cinque fortini da parte del regio esercito italiano aiuta a comprendere l’entità raggiunta dal fenomeno del brigantaggio in Alta Val di Sangro. Un’ulteriore conferma della gravità del problema proviene dal ricordo dell’eccidio di Lago Vivo del 22 giugno del 1863. In questa data presso lo stazzo di Lago Vivo, nel territorio comunale di Barrea, vennero uccisi dalla banda di Tamburrini sei guardie nazionali e cinque pastori. Nello scontro di Lago Vivo il principale antagonista di Tamburrini fu il proprietario armentizio (nonché membro della Guardia Nazionale) Emidio Di Loreto, il quale, qualche giorno prima aveva ricevuto un biglietto di ricatto dal capo brigante e per tale motivo si era recato nella località in questione per tendergli un’imboscata. Gli uomini di Tamburrini erano però più numerosi dato che ammontavano ad una quindicina di elementi e una volta ricevute le prime fucilate dai barreani si divisero in due gruppi e così facendo riuscirono a circondare lo stazzo dove si trovavano le sei guardie nazionali e ad avere la meglio su di loro. Dopo di che Tamburrini intimò ai pastori sopravvissuti di arrendersi e di deporre le armi. Questi dopo aver obbedito al capo banda non furono però risparmiati poiché vennero tutti trucidati eccetto il giovane Patrizio D’Amico. Infine, Tamburrini si accanì contro il cadavere di Emidio Di Loreto evirandolo.[9]

Fotografia di Francesco Raffaele (http://francescoraffaele.com)

Figura 5 – Lago Vivo, 156 anni fa fu teatro di uno degli episodi più sanguinosi della storia del brigantaggio postunitario.

Il 27 ottobre del 1866, tre anni dopo l’eccidio di Lago Vivo, ci fu un altro scontro a fuoco tra le montagne dell’Alto Sangro. Questa volta briganti e militari si fronteggiarono in località Coppo di Ferroio (Civitella Alfedena-Opi-Scanno) e sul terreno rimasero quattro soldati e Alessandro Tempesta, commerciante di San Donato Val di Comino catturato dalla banda di Cannone insieme ai suoi 12 muli carichi di formaggio.[10] In seguito all’avvenimento del Ferroio, nell’agosto del 1867, il Genio militare fece stendere una linea del telegrafo tra Castel di Sangro, Alfedena e Villetta Barrea che non venne mai sabotata dalle bande brigantesche, le quali ne sottovalutavano forse l’importanza ai fini della logistica militare.[11]

                                     Fotografia di Francesco Raffaele (http://francescoraffaele.com)

Figura 6 – L’area di Coppo di Ferroio dove avvenne lo scontro a fuco del 27 ottobre del 1866 durante il quale i briganti uccisero un civile e quattro soldati.

La presenza di bande armate irregolari all’interno dei territori dei Comuni alto sangrini rappresentava una problematica non solo per i ricchi proprietari armentizi[12] ma anche per il resto delle comunità, le quali dovevano provvedere al mantenimento dei militari incaricati di reprimere il brigantaggio. Difatti, tra il 1862 ed il 1871 furono centinaia i militari di fanteria (molti dei quali bersaglieri) per i quali i Comuni di Pescasseroli, Opi, Villetta Barrea e Barrea dovettero occuparsi dell’alloggio.[13]

In Alta Val di Sangro il continuo afflusso di truppe terminò con l’uccisione di Domenico Fuoco sul Monte Meta nella notte tra il 17 e 18 agosto del 1870 e con la cattura di Croce di Tola presso l’area pascolativa di Pallottiero il 29 luglio del 1871. Dei due eventi appena ricordati, l’ultimo può essere considerato come la fine ufficiale del fenomeno del brigantaggio tra i monti alto sangrini. Gli artefici della cattura di Croce di Tola furono i carabinieri al comando del brigadiere piemontese Chiaffredo Bergia, il quale, in seguito a questa operazione, venne insignito della croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia e ricevette la cittadinanza onoraria dalla giunta comunale di Scanno.

Chiaffredo Bergia, (http://it.carabinieri.it)

Figura 7 – Ritratto di Chiaffredo Bergia.

Ma come mai in Alta Val di Sangro il brigantaggio poté prosperare durante quasi tutto l’Ottocento?

Sicuramente la natura impervia e boscosa del territorio contribuì ad offrire innumerevoli rifugi e nascondigli alle bande di briganti che qui trovavano anche svariate vie di fuga verso altri territori (Valle di Canneto e Alto Molise). Inoltre, secondo lo storico Uberto D’Andrea anche la pratica della pastorizia giocò un ruolo a favore del brigantaggio. Al riguardo, D’Andrea ritiene che l’esistenza di decine di stazzi in alta montagna (popolati da numerosi pastori durante i mesi estivi) abbia garantito ai briganti dei punti di riferimento sia per il rifornimento di viveri che per lo scambio di informazioni (spostamenti dei militari e avvenimenti nei paesi del fondovalle).[14] Effettivamente non è un caso se i principali scontri a fuoco tra briganti e militari si siano verificati nei paraggi di ricoveri pastorali (eccidio di Lago Vivo, scontro del Ferroio e cattura di Croce di Tola).

Quale eco rimane oggi nei paesi dell’Alto Sangro del fenomeno del brigantaggio?

La figura del bbrëiandë «brigante / bandito», quasi come quella del lupo mannaro o del fantasma, fa ormai parte del tradizionale immaginario collettivo alto sangrino. Ad Opi anche chi è nato negli anni del secondo dopoguerra è venuto a sapere dai nonni o dai genitori della terribile presenza, nel passato, del brigante Fuoco a Forca d’Acero. Inoltre, fino a pochi anni fa era ancora relativamente facile ascoltare dai più anziani (nati negli anni Venti del Novecento) racconti inerenti fantasmagorici bottini nascosti dai briganti nel tronco cavo di faggi secolari oppure in stretti anfratti di rocce difficili da raggiungere. Ad esempio, alcuni anni fa un anziano di Opi raccontò a chi scrive un curioso aneddoto: nella prima metà del secolo scorso venne bruciato un grosso albero di faggio nell’area del Valico Passaggio dell’Orso (Alta Val Fondillo) poiché alcuni opiani erano convinti che al suo interno si trovassero diverse monete d’oro frutto delle razzie dei briganti del secolo precedente. Secondo l’informatore, il tesoro non fu rinvenuto ma tra i resti carbonizzati del grosso albero fu osservato del metallo liquefatto. Si trattava forse dell’oro dei briganti?

Sempre a Opi è ancora diffusamente nota l’ubicazione del Bbarraccónë i jë Bbrëjandë «il baraccone dei briganti». Ovvero i resti delle mura perimetrali a pianta rettangolare (6 x 15 m) del blockhaus di Val Fondillo. La memoria popolare ne ha però confuso l’origine tant’è vero che tra i più anziani era opinione diffusa che la struttura venisse utilizzata come roccaforte dai briganti, mentre nella realtà il fortino fu costruito dall’esercito italiano per intervenire prontamente contro le bande di briganti di passaggio nella zona.

Attraverso queste ultime testimonianze è quindi possibile notare come a distanza di 148 anni dalla cattura di Croce di Tola la memoria, seppur sempre più vaga, dei fatti legati al brigantaggio postunitario sia riuscita a giungere ai contemporanei.

Per concludere, chi scrive spera che il presente articolo sia riuscito, almeno in minima parte, a trattare in modo obiettivo un argomento, come quello del brigantaggio postunitario, che ancora oggi suscita aspre polemiche in ambito storiografico per via dello stretto legame con il tema dell’Unità d’Italia. Difatti, l’autore, durante la stesura del presente articolo, ha cercato di evitare sia un’analisi influenzata dalla retorica postrisorgimentale che un punto di vista radicalmente revisionista in grado di stravolgere la realtà storica.

 

Qualche lettura per saperne di più:

Canosa Romano, Storia del brigantaggio in Abruzzo dopo l’Unità (1860-1870), Ortona 2010, Menabò.

Cimini Nicola Vincenzo, Genesi, Vita e Storia delle Terre dell’Orso. Con uno sguardo alla terra di Opi, Opi 2010.

Croce Benedetto, Due paeselli d’Abruzzo: Pescasseroli e Montenerodomo, rist. anast. dell’edizione del 1921, Comune di Pescasseroli – Comune di Montenerodomo, Raiano 1999, GraphiType.

D’Andrea Uberto, Gli avvenimenti dal 1791 al 1806 nelle valli dell’Alto Sangro e del Sagittario ed in alcune zone della Marsica e della Conca Peligna, Casamari 1974, Tipografia Abbazia di Casamari.

D’Andrea Uberto, Memorie storiche di Villetta Barrea, Casamari 1987, Tipografia Abbazia di Casamari.

D’Andrea Uberto, Villetta Barrea dal 1806 al 1984, Casamari 1991, Tipografia Abbazia di Casamari.

D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari.

Di Marino Andrea, Storia di Opi, Salerno 2002, Cronache italiane.

Tarquinio Gianluca, Pescasseroli. Lineamenti di storia dalle origini all’Unità d’Italia, L’Aquila 1988, Arti Grafiche Aquilane.

Tarquinio Gianluca, Aspetti economici, sociali, religiosi e demografici di Pescasseroli (secc. XII-XX), Roma 1995, Litorapid.

 

[1] Croce Benedetto, Due paeselli d’Abruzzo: Pescasseroli e Montenerodomo, rist. anast. dell’edizione del 1921, Comune di Pescasseroli – Comune di Montenerodomo, Raiano 1999, GraphiType, pp. 97-98.

[2] D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari, p. 14.

[3] Tarquinio Gianluca, Aspetti economici, sociali, religiosi e demografici di Pescasseroli (secc. XII-XX), Roma 1995, Litorapid, pp. 98-100.

[4] D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari, p. 17.

[5] Cimini Nicola Vincenzo, Genesi, Vita e Storia delle Terre dell’Orso. Con uno sguardo alla terra di Opi, Opi 2010, p. 136.

[6] Tarquinio Gianluca, Aspetti economici, sociali, religiosi e demografici di Pescasseroli (secc. XII-XX), Roma 1995, Litorapid, p. 105.

[7] È possibile notare come tutti i capibanda non erano nativi dell’Alto Sangro. Difatti, la maggior parte della popolazione alto sangrina non ebbe alcun ruolo attivo nel fenomeno del brigantaggio. Solamente alcuni abitanti di Pescasseroli, Opi, Villetta Barrea, Civitella Alfedena e Barrea fecero parte di bande di briganti. Un alto sangrino che prese parte ad alcune attività brigantesche fu il civitellese Pietro Rossi, membro della banda di Fuoco nel 1866 e spontaneamente presentatosi difronte le autorità nei primi giorni del 1867. Della sua esperienza rimane il verbale dell’interrogatorio redatto a Castel di Sangro il 13 gennaio del 1867 (D’Andrea Uberto, Memorie storiche di Villetta Barrea, Casamari 1987, Tipografia Abbazia di Casamari, pp. 268-274).

[8] Altri tre blockhaus vennero rispettivamente costruiti presso Balzo dei Tre Confini (Pescasseroli), Coppo di Ferroio (Civitella Alfedena-Opi-Scanno) e Chiarano (Barrea). Quest’ultimo, forse costruito in legno, venne dato addirittura alle fiamme nel 1871 dalla banda di Crucittë (D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari, p. 34).

[9] Canosa Romano, Storia del brigantaggio in Abruzzo dopo l’Unità (1860-1870), Ortona 2010, Menabò, pp. 183-186.

[10] D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari, pp. 54-55.

[11] La linea del telegrafo venne dismessa dall’esercito dopo la cattura di Crucittë nel 1871. Villetta Barrea tornò ad essere servita nuovamente da una linea telegrafica solamente nel 1893 (D’Andrea Uberto, Memorie storiche di Villetta Barrea, Casamari 1987, Tipografia Abbazia di Casamari, pp. 180-183).

[12] Spesso i briganti ricattavano gli agiati proprietari armentizi della zona minacciando di arrecare loro un grande danno economico decimandone le greggi al pascolo. Ciò a volte accedeva sul serio come nel 1867 quando una banda di briganti, probabilmente quella di Fuoco, uccise 150 ovini di proprietà del civitellese Amico Antonucci in località Pianezza, un pianoro erboso posto sul fianco meridionale di Monte Marsicano (Di Marino Andrea, Storia di Opi, Salerno 2002, Cronache italiane, pp. 129-130).

[13] Nei paesi alto sangrini le famiglie più ricche ospitavano gli ufficiali, mentre i soldati semplici venivano alloggiati presso famiglie umili (D’Andrea Uberto, Memorie storiche di Villetta Barrea, Casamari 1987, Tipografia Abbazia di Casamari, pp. 86-87 n.6, 89-90).

[14] D’Andrea Uberto, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta Valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992, Tipografia Abbazia di Casamari, pp. 23-24.

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