Racconti del tratturo Castel di Sangro-Lucera

La videointervista, da cui è tratto il presente articolo, è stata condotta da Giorgio e Mario Cimini[1] il 20 agosto 2017 a Patrizio Ursitti, di Opi ma residente a Pescasseroli, il quale, con simpatia e pazienza, ha ricordato e fatto rivivere alcune usanze, abitudini e piccole avventure della vita di tratturo.

fonte Wikipedia, Tratturo Lucera-Castel di Sangro, (http://it.wikipedia.org/)

Figura 1 – Mappa con i percorsi dei principali tratturi che collegavano l’Abruzzo e il Molise con la Puglia (il tratturo Castel di Sangro-Lucera è evidenziato in rosso).

A che età hai fatto il tuo primo tratturo?

«Ho cominciato a seguire tatà[2] verso la fine della guerra. Ero bambino e uno dei miei primi compiti era quello di proteggere, durante la notte, un centinaio di pecore dai tedeschi e dall’ orso. Quando poi arrivò l’autunno (festa della Madonna del Rosario, prima domenica di ottobre) partimmo per le Puglie. Durante il tratturo, la notte si dormiva all’ addiaccio: l’unico riparo era la varda[3] del mulo sotto la quale mi rifugiavo con le coperte fatte di pelle di pecora. Se di notte però cominciava a piovere in poco tempo mi ritrovavo completamente bagnato.                                Anche camminare di giorno era scomodo perché quando ho cominciato ad andare per il tratturo si usavano ancora jë patìtë[4] che facevano male ai calcagni. Infatti, era meglio camminare solo con due o tre cavëzéttë[5]. Si camminava più facilmente e così si poteva arrivare fino a Lucera senza nessun dolore ai piedi!»

Quanti giorni si impiegavano per arrivare da Opi fino alla zona di Lucera?

«Ci volevano 11 giorni perché si facevano 15-20 km al giorno. A fine settembre, quando si partiva per il tratturo, bisognava sbrigarsi perché sennò le pecore cominciavano a figliare lungo la strada. Qualche agnello però nasceva sempre durante il viaggio e noi lo portavamo sopra i muli.              Ma bisognava sbrigarsi anche per non farsi superare dai marchìttë, i pastori della provincia di Teramo. Se i marchìttë ci passavano davanti, le loro pecore avrebbero mangiato prima delle nostre l’erba migliore del tratturo. Bisognava evitare i pascoli già usati da altre greggi anche per il rischio di malattie».

Fotografia di Udo Sprengel[6]

Figura 2 – Agnello nato durante il percorso e caricato sul mulo, autunno 1965.

Per dove passava il tratturo?

«Noi scendevamo da Monte Tranquillo, attraversavamo la zona dove oggi ci sono i campeggi e seguivamo la Nazionale[7] fino alla Zittola, vicino a Castel di Sangro. Il tratturo più antico, però, dalle Macchjòlë, dietro il cimitero di Opi, arrivava a Val Fondillo e continuava sotto Monte Amaro e la Camosciara».

E una volta arrivati alla Zittola dove andavate?

«Chi come noi doveva arrivare fino a Lucera, dopo la tappa di Alfedena, dalla Zittola andava verso Montalto (frazione di Rionero Sannitico), passando vicino al Macerone. Da Montalto si proseguiva il cammino e si passava per Pescolanciano, Civitanova del Sannio, Duronia, Molise e Castropignano. Dopo aver superato Castropignano, si attraversava il fiume Biferno e, passando per Ripamolisani, si giungeva a Campolieto. Da qui, si continuava per San Giuliano di Puglia e Santa Croce di Magliano, ultima tappa molisana del tratturo. Dopo di che, il fiume Fortore ci ricordava che stavamo entrando in Puglia e a Torremaggiore (vicino San Severo), si faceva l’ultima tappa prima di raggiungere la masseria nella campagna di Lucera.                                                      Le tappe le facevamo sempre negli stessi posti e in alcuni punti c’ erano delle chiese costruite per dare rifugio ai pastori».

Fotografia di Udo Sprengel

Figura 3 – Attraversamento del fiume Biferno, autunno 1965.

Fotografia di Udo Sprengel

Figura 4 – Tratto pugliese del tratturo, autunno 1965.

Cosa si faceva in Puglia?

«In Puglia si restava l’inverno perché lì il clima caldo fa crescere tutto l’anno l’erba per le pecore. Tornavamo quasi sempre nelle stesse zone (San Severo-Lucera) dove affittavamo la massaria e circa 50-60 ha di terreno intorno per il pascolo degli animali».

Quando tornavate a casa?

«A casa si tornava a maggio. Mi ricordo ancora la gioia di rivedere Monte Marsicano da lontano!     Durante il ritorno, ogni mattina, mungevamo il nostro gregge di 600 pecore che ci dava 70-80 litri di latte con i quali si facevano 15-20 kg di formaggio. La gente lo sapeva e nei paesi che attraversavamo ci aspettava lungo la strada per comprare il nostro formaggio appena fatto.    Quando poi tornavamo a Opi, si portavano le pecore in montagna dove c’erano gli stazzi: a Trënchìllë[8] (Pescasseroli), Bocca di Forno (Pescasseroli), Valle Crapara[9] (Pescasseroli), Pianezza (Opi) e Móndë Gódë[10] (Villetta Barrea). All’ epoca, esisteva il sistema della quënëcìna[11]: dopo 10 giorni di stazzo i pastori, aiutati nel loro lavoro quotidiano dal vagliónë di jaccë[12], potevano scendere in paese per 4 o 5 giorni»[13].

Fotografia di Udo Sprengel

Figura 5 – Ercole Ursitti durante la vendita del formaggio, primavera 1966.

Come era organizzato il lavoro dei pastori?

«Il massarë[14] controllava i pëquëralë[15], addetti alla mòrra[16]. Del trasporto delle masserizie e della montatura della rétë[17] per la mandra[18] si occupavano i vùttara, i custodi dei muli.        In questo modo, ogni sera, i pastori trovavano il recinto per il gregge già montato.[19] Durante le mattine di primavera, i pëquëralë mungevano le pecore e in questa attività erano aiutati dal bbëscìnë, il garzone che mandava le pecore verso i vadë, il cancelletto del recinto.                        Del trattamento del latte e della delicata lavorazione del formaggio si occupava il casciérë».

Fotografia di Udo Sprengel

Figura 6 – Ercole, Raffaele e Patrizio Ursitti intenti nella mungitura mattutina, primavera 1966.

Fotografia di Udo Sprengel

Figura 7 – Ercole Ursitti intento nella preparazione della cagliata, primavera 1966.

Cosa mangiavate durante il tratturo?

«A fine settembre, quando si partiva, mangiavamo bene perché avevamo carne, formaggio e pane. Però, dopo qualche giorno, la carne finiva e ci rimanevano solo il pane e il formaggio. Mangiavamo cose semplici come  panëcóttë: si ammorbidiva il pane nell’ acqua calda e poi lo si condiva con olio e verdure. Quando stavamo in montagna, ai jaccë[20], si faceva la mëscìšca[21]».

Quali famiglie della Valle mandavano le loro greggi in Puglia?

«Quando ho cominciato a fare il tratturo, a Pescasseroli c’erano ancora i Gentile che mandavano ogni anno tante pecore a Candela. A Opi, c’erano solo gli Ursitti mentre a Villetta Barrea e a Barrea c’erano i Graziani e i Di Loreto e anche loro andavano ogni anno a Candela. Alcuni padroni, verso gli ultimi tempi, hanno cominciato a usare il treno e i camion per andare in Puglia ma poi, rimasti senza personale, hanno venduto tutte le pecore».

Quando hai fatto il tuo ultimo tratturo?

«L’ ultimo tratturo l’ho fatto nel 1970. Ormai era tutto cambiato. Dall’ Abruzzo fino alle Puglie non si andava più a piedi con le pecore perché per le strade c’erano le macchine e il tratturo in certe zone era scomparso. Prima, in Molise, il tratturo lo vedevi anche da lontano! Era largo 60 passi (111 metri) ed era tutto del demanio. Poi quando le pecore non sono più passate hanno cominciato a costruire ai lati. Pensate che a Pescolanciano hanno costruito un palazzo in mezzo al tratturo! Lo hanno fatto proprio là dove una volta passavamo noi con le pecore!»

 

[1] Per le informazioni riguardanti le fotografie presenti in questo articolo si ringrazia la collaborazione di Mario Cimini.

[2] tatà = papà.

[3] varda = basto del mulo.

[4] jë patìtë = gli zoccoli di legno dei pastori.

[5] cavëzéttë = calze.

[6] Udo Sprengel, docente presso l’Università di Amburgo, partecipò di persona al tratturo 1965-1966 della famiglia Ursitti. Le osservazioni maturate durante questa esperienza confluirono nel suo libro La pastorizia transumante nell’ ambiente dell’Italia centro-meridionale, pubblicato nel 1971 in lingua tedesca per la Società Geografica di Amburgo.

[7] La S.S. Marsicana (N.° 83).

[8] Monte Tranquillo.

[9] Valle Caprara.

[10] Montagna di Godi.

[11] quënëcìna = quindicina.

[12] vagliónë di jaccë = ragazzo che aiutava nei servizi dello stazzo.

[13] Fino alla metà del secolo scorso, la paga dei pastori coinvolti nella transumanza era prevalentemente costituita da prodotti alimentari destinati ad un uso immediato quali pane, olio, vino, latte e ricotta.

[14] massarë = capopastore.

[15] pëquëralë = pecorai, pastori.

[16] mòrra = gregge di pecore.

[17] rétë = rete.

[18] mandra = recinto.

[19] Negli ultimi anni della transumanza tradizionale, i muli dei vùttara vennero sostituiti dalle automobili.

[20] ai jaccë = allo stazzo.

[21] mëscìšca = carne di pecora, salata e fatta seccare al sole, perché non vada a male.

 

 

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