“Veleni nel piatto” appuntamento per l’11 agosto. Intervista all’autore Alessandro Gaeta

veleni-nel-piatto“Veleni nel piatto” realizzato dal giornalista Alessandro Gaeta per il TG1, getta luce sulle problematiche legate al consumo di cibo nell’attuale epoca delle sofisticazioni per costruire un nuovo sapere dietetico. L’incremento esponenziale delle mode alimentari sembra preannunciare una rivoluzione a tavola. C’è una dieta per ogni corrente di pensiero, così che il cibo non è più isolato nel contesto della cucina. Segno che il criterio della “sostenibilità” si applica ormai anche all’alimentazione. La sfida è recuperare la genuinità del cibo, dopo che anche l’ambito culinario ha subito di riflesso le trasformazioni degli ultimi secoli irrequieti. Ma anche assumere consapevolezza sul tema del nutrimento. Oggi amiamo le ricette, le combinazioni, gli shaker, bisogna ritornare alle etichette. Dalla cosmesi del cibo alla chimica del cibo.

Ecco le mie domande ad Alessandro Gaeta.

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 – Il nuovo pericolo del “cibo velenoso” è anche un portato dell’allargamento degli scambi commerciali?
La globalizzazione ha cambiato e continuerà a cambiare le nostre vite. Ci sono aspetti positivi ma ce ne sono parecchi negativi. Prendiamo ad esempio il grano. L’Italia pur essendo una grande consumatrice di pane e di pasta produce all’incirca il 60 per cento del suo fabbisogno di frumento. Quello che compriamo all’estero non potrà mai essere come il nostro grano raccolto e molito sotto casa. Per il semplice fatto che per arrivare dall’Ucraina, dalla Turchia o dal Canada affronta lunghi viaggi via mare e si espone, viaggiando nelle stive delle navi che oggi caricano un prodotto agricolo e domani chissà cos’altro, al pericolo delle aflatossine che non sono altro che sostanze prodotte dalle muffe. Peccato che le muffe del grano sono cancerogene. Per non parlare dei prodotti chimici che favoriscono la maturazione del grano che da noi non sono usati perché ci pensa il sole a rendere il frumento pronto per la mietitura ma che Oltreoceano sono molto diffusi.

 – Condurre verso un tipo di alimentazione più sana non è un tentativo di spostare i consumi verso altri segmenti del commercio?
L’industria alimentare è sempre stata molto svelta a cogliere le nuove tendenze di mercato. Adesso che la domanda di alimenti naturali è molto forte, è evidente che chi elabora le strategie commerciali dei grandi marchi alimentari tenga conto anche di questa tendenza. Il consumatore però ha un’arma che sta nella lettura attenta dell’etichetta e nel pretendere sempre maggior trasparenza.

 – Chi ci guadagna dai “Veleni nel piatto”?
A guadagnarci è certamente la grande industria alimentare perché puntando su ingredienti a basso costo ottiene consistenti risparmi sul prodotto finito. Pensiamo all’olio di palma che tanto ha fatto discutere negli ultimi anni. La resistenza è stata lunga. L’associazione di categoria dell’industria alimentare ha speso in comunicazione e pubblicità un mucchio di quattrini negando l’evidenza e sponsorizzando ricerche scientifiche che andavano nella direzione opposta. Alla fine però l’industria si è dovuta arrendere di fronte alla decisione di molte catene della grande distribuzione di rinunciare, nei prodotti a marchio proprio,  a questo grasso vegetale considerato ormai da larga parte del mondo scientifico aterogeno, cancerogeno e genotossico. Questa resistenza verso il ritorno a grassi più salutari ma anche più costosi la dice lunga su quanto il profitto conti più della salute dei consumatori.

– Perché le case di produzione investono più nella pubblicità piuttosto che sulle nuove tecnologie alimentari e sui controlli?
L’industria alimentare ci propone molto spesso alimenti ai quali non siamo abituati o verso i quali genitori più attenti e scrupolosi invitano i figli a tenersene lontano il più possibile. Sperando di non far arrabbiare nessuno prendiamo ad esempio l’hot dog: il panino con l’hamburger condito con la salsa ketchup. Se c’è un alimento lontano dalla nostra tradizione alimentare è proprio l’hot dog. Se non ci fossero state soprattutto negli anni ottanta e novanta aggressive campagne pubblicitarie a favore di un’alimentazione fast-food e se, per guardare ai giorni nostri, l’Expò di Milano non avesse avuto come sponsor principale proprio quel noto marchio che produce hot dog e patatine fritte, non credo che l’hamburger sarebbe così diffuso. Del resto non si dice che la pubblicità è l’anima del commercio?

 – Non è una battaglia vana quella di introdurre “cibo vergine” quando basta solo respirare per inalare sostanze tossiche, oppure l’esposizione al sole?
Noi siamo ciò che mangiamo,  scrisse nel 1862 il filosofo tedesco Fuerbach. Ormai lo dice anche la scienza ufficiale: se consumiamo ingredienti e cibi troppo lavorati, e carboidrati troppo semplici, ci esponiamo a gravi malattie come per esempio il diabete o il tumore al colon. Poiché ciascuno di noi mangia almeno tre volte al giorno è chiaro che è più facile “inquinarsi” mangiando male piuttosto che respirando sostanze tossiche. Intendiamoci: questo non vuol dire che a Taranto fanno male a protestare contro i fumi della fonderia o a Porto Maghera a fare causa alle fabbriche di pvc.

 – L’ossessione del cibo sano non ci porta a vivere male per morire bene?
Non sono d’accordo. La pasta integrale è più buona di quella realizzata con la farina bianca. Ha un sapore più ricco, più complesso e si sposa molto bene con i condimenti. E lo stesso discorso si può fare per il riso, per il pane. È solo una questione di abitudine e di volgere lo sguardo indietro, all’alimentazione dei nostri nonni: era ricca di legumi (perché la carne era un piatto costoso riservato ai giorni di festa) e di cereali integrali perché con i mulini a pietra non era facile eliminare le fibre. Lo dice anche la scienza che la dieta mediterranea aiuta a vivere bene e a morire bene. Provare per credere. Basta qualche mese e i benefici si vedono.

Grazie ad Alessandro Gaeta!

FEDERICA TUDINI

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