Caravaggio l’anima e il sangue e il genio

“Caravaggio l’anima e il sangue” nasce da un delitto: l’esecrabile tentativo di comprimere una vita in un file. Ed estorce allo spettatore la complicità. Non abbiamo nemmeno più il compromesso della bobina che quanto meno conserva la forma geometrica della vita. Via la linea piatta, restano solo punte, escrescenze dell’esistenza che per una persona normale sono svolte ma per un genio sono inceppi. Il titolo è un protocollo d’intesa e comanda di sedere sulla poltrona come su un seggio. La visione è come un confronto parlamentare e bisogna legiferare sul valore di un prodotto artistico ardito degno della bioetica: un uomo che nel film diventa un clone. La dicitura neogotica specula sulle aspettative. In parte deride chi guarda e che ha già avuto contatti con il protagonista dissacrato dai ripetuti racconti. Ma soprattutto rivoluziona la prospettiva: al centro non c’è più il registro michelangiolesco chiaroscurale di luci e ombre ma compare il sangue che induce a riflettere su un altro aspetto inedito del colore corruttivo, ovvero la macchia.

La retorica riconduce il profilo di Michelangelo Merisi a quello di un genio. I posteri sembrano continuare a confermare quest’ardua sentenza. L’arte e la biografia hanno consacrato questo nuovo termine, “genio”, che ha soppiantato quello di “classico”. Un’operazione chirurgica del vocabolario tecnico che non può essere estemporanea. Geniale è ciò che è vitale. La critica ha voluto restituire con una presunzione divina quella vitalità che in un uomo ariostesco in verità è depressa . Il cinema interviene e dona la sostanza carnale che mancava a questa resurrezione. Per quest’opera “Caravaggio l’anima e il sangue” va assolto dal delitto iniziale. Ma durante la visione sul pubblico continua a pendere la presunzione di colpevolezza.

Rappresentare un artista di questa levatura è insidioso. Significa aggirarsi in un labirinto di specchi per via del perenne confronto tra i soggetti implicati. E il pubblico non è esente. La capacità del regista è stata quella di rimanere discreto, di non insistere su questa trama di confronti. È stato attento alla distribuzione della luce e delle ombre per non ricondurre alla perversione dello specchio. Scombinata la luce, anche l’ombra viene ricodificata e viene mostrata per quello che è: colore nero.

Jesus Garcés Lambertlo dice. Dice, ma non dichiara. Una buona formula compromissoria che si allinea con un’altra scelta narrativa, cioè quella di procedere per scivolamenti. L’effetto non è quello della sospensione. Ma di una adesione precaria alla verità. Il film non lo dichiara, ma dice che una verità c’è. Una verità c’è sempre: “ver” è la primavera. “Ver-ità” è ciò che è vitale. È ciò che è geniale. Allora c’è un almeno un po’ di genialità in ogni spettatore, del quadro e del cinema, che nel godimento estetico della visione sperimenta la vitalità. Questo articolo è un invito ad andare al cinema per sentirsi per qualche ora “geniali”.

FEDERICA TUDINI

Riproduzione del film in anteprima nazionale presso il cinema ETTORE SCOLA di Pescasseroli il 21 febbraio

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