Domenica 7 agosto, performance teatrale “Ritmi di festa”. Intervista a Paolo Apolito

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La musicalità del corpo ha impegnato Paolo Apolito. La corporeità che ha un significato quasi atmosferico su cui poi si coagulano i significati emotivi ed affettivi. Perciò ci vuole romanticismo a trattare il corpo, anche se oggetto di uno studio, per tentare di capire cosa sia la musica associata a questo sarcofago di carne. Ci vogliono le esperienze come sostegno dell’indagine, stralci della vita nei secoli per scoprire tutto l’arsenale extramusicale che sorge intorno al corpo, vero centro di gravità.  Così Apolito evita il discorso soltanto tecnico, o avrebbe sporcato qualcosa che doveva restare magia. Sotto l’impostura della lettura del libro, almeno qualche possibilità di immedesimazione nello sguardo dell’autore doveva restare, per sperimentare in una visione la stessa ammirazione sulla strana alchimia della comunicazione corporea.

Considerato sul metro della vita di un individuo, la trasformazione del corpo è rapida. Ma nell’arco dei millenni, poco si è discostato dall’aspetto della scimmia. Coinvolto nella lotta per la selezione della specie, è il primo canale della comunicazione. Ma soprattutto un centro di gravità di atmosfere e di ritmi. Siamo tutti diversi, tutti divisi: tra popoli, religioni, partiti politici… Ma lì, nel corpo, siamo tutti uguali. Su di esso andiamo sempre a rifondare un’unità disgregata, nelle situazioni più critiche, dove l’istinto più atteso sarebbe quello di combattersi. E invece, racconta Apolito, anche al fronte, da una trincea all’altra è possibile venirsi incontro. Quasi che nel corpo prima sia scattata la globalizzazione. Perché c’è sempre un ritmo di sottofondo per cui ciascuno è pronto ad offrire all’altro un ballo. Dalle associazioni di tipi umani e tipi di esperienze risulta una cartografia umana di linee trasversali. “Uno” eravamo, e “uno” in fondo siamo.

Il saggio va in scena. Le incursioni musicali di Stefano Gentile, voce dei Distillados, alle percussioni e Alessandro Gentile, tastierista anche lui presso i Distillados, al pianoforte rendono anche più facile il racconto.

Le mie domande a Paolo Apolito.

1.     La divisione culturale frammenta la comunità ritmica?

 In realtà ogni comunità ritmica è in un certo senso una comunità culturale, nel senso che il ritmo è condiviso da coloro che fanno parte dello stesso mondo culturale, cioè conoscono e praticano “quella” forma specifica di musicalità comunicativa, che è diversa da “quest’altra” e “quell’altra” e così via.

 2.     Il senso di musicalità è innata. è per questo che le lingue della conversazione piana tendono a riprodurre un ritmo? Penso agli accenti, per esempio.

 Sì, ciascun essere umano nasce predisposto ad apprendere la musicalità del mondo culturale nel quale gli è capitato di nascere e crescere (ma basta solo crescere: si può nascere a Tokio e crescere a Napoli per diventare napoletano). Nella lingua umana poi, la musicalità comunicativa trova uno dei campi più importanti in cui esprimersi e realizzarsi: accenti, certo, e tante altre cose.

 3. Nel libro si parla per lo più di coinvolgimento musicale nel rapporto con il prossimo. Che valore ha il ritmo nel rapporto con noi stessi?

(Aggiungo una mia considerazione: nel libro ha fatto riferimento all’incontro tra diversi durante le conquiste coloniali. C’era una gestualità di risposta alle manifestazioni degli indigeni per condurli al dominio. E se avessimo anche il bisogno di dominare noi stessi? Allora, per esempio, ci imponiamo il ritmo della corsa, della camminata, a volte tentiamo di dare anche un ritmo al respiro, per pilotare il nostro corpo. Questo corpo, che più della mente, sembra essere tiranneggiato, deve sempre assolvere  funzioni. Il nostro corpo non ha mai un ritmo naturale, il “suo” ritmo, costantemente soggetto di imposizioni. è perché lì passa la vita e allora, dominando il corpo, tentiamo di dominare la vita?)

 In realtà il ritmo personale è fatto di un insieme plurale di ritmi, a cominciare dai ritmi cellulari, passando per quelli degli organi, delle linfe, dei sistemi fisiologici, eccetera. Questi ritmi endogeni dialogano poi con quelli ambientali: basti pensare ai ritmi stagionali e a quelli circadici (giorno/notte). Tutti questi ritmi devono poi trovare equilibri anch’essi multipli. Questo per ciò che riguarda la bio-fisio-ecologia. Poi è da aggiungere il mondo psico-culturale, anch’esso frutto difficile di equilibri tra predisposizioni individuali, apprendimenti dall’esterno, pratiche sociali. Ecco: quando diciamo “dominare il corpo” dobbiamo tener presente che la nostra attività volontaria di controllo entra in un tessuto poliritmico già di per sé estremamente complesso e stratificato. È per questo che non è facile il dominio, e che rimaniamo stupefatti quando veniamo a sapere di qualcuno che ci riesce in maniere per noi inavvicinabili (penso ad alcune esperienze estreme di yogi per esempio). Nel mio libro però salto a piè pari tutta questa parte dei ritmi individuali e mi concentro sul mio oggetto di interesse maggiore, è cioè la condivisione di ritmi culturali, in altre parole i modi in cui si apprendono i ritmi condivisi e si partecipa a essi.

 3.     Anche oggi andiamo alla ricerca di musicalità. Ma perché cerchiamo di trovarla in ritmi estremi? Penso al concerto rock o al ritmo martellante della musica in discoteca.

Perché definirli estremi? Non c’è una norma universale del ritmo, tale che ci permetta di definirne alcuni estremi, altri vicini. La norma è culturale, dunque ciò che estremo per noi per altri non lo è. Certi ritmi martellanti ci segnalano la complessità della nostra società, in cui convivono diversamente dal passato ritmi molto diversi e lontani tra loro. L’aspetto interessante è che le stesse persone molte volte partecipano a situazioni ed eventi diversi, ciascuno caratterizzato da ritmi tra loro “estremi” e li godono entrambi.

4.     Come è cambiata la comunicazione attraverso il corpo nell’epoca virtuale?

 Sta cambiando sotto i nostri occhi, e apre una grande scommessa. Perché è vero che la vicinanza digitale e virtuale pare minacciare la vicinanza reale, i rapporti reali, i contatti fisici, ma non ci si sottrae al corpo. Siamo corpi – più che abbiamo corpi – e questa natura stessa del nostro vivere non potrà mai essere cancellata se non con l’esperienza ultima della corporeità, il morire.  E poi siamo corpi musicali. Ed entriamo in ritmi condivisi, e avvertiamo sentimenti specifici per questo. In certi momenti e certe situazioni poi – le feste – intensifichiamo la musicalità delle relazioni e i sentimenti e le emozioni correlati.

 5.     Oggi, nell’epoca del terrorismo globale, siamo in un contesto di poliritmie?

 L’umanità è sempre stata in un mondo di poliritmie, vorrei dire meticce. Nella globalizzazione attuale – che significa innanzitutto crescita delle interconnessioni – queste poliritmie sono note, evidenti, molte volte condivise. Nel mondo attuale non ci sono più ritmi separati (come magari ai tempi di Colombo, separati dall’oceano), ma tutti i ritmi dialogano tra loro. Il terrorismo allora si pone come un tentativo tragico, ma destinato al fallimento, di rompere il dialogo ritmico tra l’umanità, un tentativo di distruggere la parte dell’umanità che non si piega al ritmo che una piccolissima altra parte dell’umanità vorrebbe imporre come unico legittimo: tentativo folle che non potrà che fallire (anche se purtroppo con molte vittime) perchè la poliritmia è un fenomeno inarrestabile, che dipende dalla complessità stessa della vita umana, che è fatta insieme di tradizione e di creatività, di memoria e di innovazione.

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