Farsi comunità e diventare Prometeo

Il padre gesuita Paneloux nel romanzo di Albert Camus “La peste” distingueva gli uomini in due categorie: quelli che fuggono (dalla malattia e dal dolore) e quelli che restano. Noi siamo quelli che restano.

Noi siamo quelli che restano in una gabbia di montagne, d’oro o di ferro arrugginito. Una calca di prefiche che condividono il lutto per un paese che muore pezzo dopo pezzo. Di fronte al cannibalismo della distruzione, dell’autodistruzione, la nostra risposta è il senso di vulnerabilità, di un’acquiescenza che diventa tormento, di un lamento che si fa ossessione. E’ la soglia in cui termina la paura e inizia l’abitudine pestifera della rassegnazione. Noi diventiamo il nostro primo nemico.

Quando cerchiamo sicurezza nel nostro angolo privato, nel non voto, nella non partecipazione. è questa la libertà barbara che imprigiona.

Il nostro dovere, la nostra responsabilità, è farci comunità. La comunità è quella che solleva dai dolori e dalle delusioni sopite e represse nel sottofondo, tradotte in pettegolezzi o nella silenziosa e subdola omertà. La comunità va contro il terrorismo della sfiducia. E’ un luogo aperto di confronto. Una pancia materna dove si attinge nutrimento e si cresce. Un chiostro di protezione che lascia fuori l’angoscia della chiusura nell’attesa allattante e allettante di venire al mondo più forti. La speranza non è più un gargarismo.

Ma vorrei un sindaco che avesse il volto della madre che si porta con ostentazione questa pancia. Un sindaco che per primo sappia restare e non osi fuggire dal disastro e come una mamma sappia dare risposte alla realtà che è dentro i nostri occhi.

Vorrei un sindaco che smetta di utilizzare il tempo futuro perché è il tempo della promessa e noi abbiamo invece delle priorità. Il passato lo smentisce. Vorrei che per onestà utilizzasse il condizionale: è più reale. In fondo, anche più umano. Vorrei un sindaco che quando dice “potere” non intenda il nome alternativo della forza ma il verbo della “possibilità”. Vorrei un sindaco che incontrandomi non mi dicesse “salve” ma “ciao”: sì, è uno di noi. Vorrei che riducesse l’uso della parola “responsabilità”: è troppo vicina al dovere. Fare il sindaco è un servizio volontario. Che sappia ammettere di essere in difficoltà. Ecco ricostituita la comunità e la famiglia. Il comune non è più la corte di pochi. Vorrei una dichiarazione d’amore: “IO AMO IL MIO PAESE”. Non so se ci crederei ma sarebbe comunque miele per le mia sensibilità.

E’ una sfida eroica quella che lo attende. Prometeica: deve ripartire dalle origini, come Prometeo deve restituire il fuoco sotto l’ascia pendente della crisi.

Rispetto a Camus Sciascia aveva individuato 4 categorie dell’umanità: uomini, mezzi uomini, ominicchi e quaquaraquà. Inutile dire che vorrei un sindaco che discendesse dall’Olimpo riservato e ristretto degli UOMINI.

FEDERICA TUDINI

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